Elisabetta Caminer Turra, la prima donna giornalista italiana
La passione e l'impegno della giovane donna che nel Settecento divenne direttrice di un giornale moderno e illuminista
Il Settecento fu il secolo in cui anche in Italia le donne fecero la loro comparsa nel mondo della stampa periodica. Ne divennero oggetto, con la pubblicazione di giornali ad esse espressamente dedicati, e, sebbene in casi limitati ed eccezionali, ne furono anche soggetto attivo. In un ambiente ancora dominato dagli uomini, nella seconda metà del secolo alcune donne ambiziose riuscirono a ritagliarsi un ruolo di prim’ordine, dando vita a esperienze giornalistiche d’importanza cruciale.
Una di queste fu Elisabetta Caminer Turra, considerata la prima donna giornalista italiana, che tra Venezia e Vicenza lavorò alla redazione de L’Europa Letteraria e del Giornale Enciclopedico. Proprio a lei ho deciso di dedicare questo primo approfondimento sul rapporto tra donne, scrittura e lettura in età medievale e moderna. L’idea, che avevo anticipato in una nota e che aveva riscosso tanto successo, è quella di raccontare come in questi secoli anche le donne riuscirono - in modo graduale e non senza difficoltà - a prendere parte ai processi di alfabetizzazione e a muovere i primi passi in un mondo, quello delle lettere e della stampa, dominato dagli uomini. Ma che cosa leggevano, le donne? Cosa scrivevano? Come lo facevano e con che risultati? Di tutto questo spero di occuparmi in questa serie di articoli che, con una regolarità che devo ancora ben definire, affiancherà nel corso di quest’anno le mie normali pubblicazioni.
Ho scelto di iniziare parlando di Elisabetta, dicevo, perché è stata una figura importante sia per la storia delle donne, sia per la mia - molto più umile - storia personale. Un po’ perché mia concittadina (per diversi anni ha vissuto appunto a Vicenza), ma soprattutto perché l’ho più volte incontrata durante i miei studi universitari. Ho dedicato infatti la mia tesi magistrale a ricercare e analizzare la produzione della cognata, Gioseffa Cornoldi Caminer, le cui notizie biografiche purtroppo scarseggiano sebbene anche lei abbia scritto per due anni, tra il 1786 e il 1788, un giornale per donne assolutamente interessante. Sullo sfondo delle mie ricerche c’era sempre la figura di Elisabetta, che con il suo carattere deciso e coraggioso si muoveva con determinazione in un universo letterario difficile, a volte apertamente ostile, dirigendo e animando le pubblicazioni di giornali che, grazie al suo impegno, trovarono lettori in tutta la penisola italiana.
La vita di una giovane intellettuale illuminista
Elisabetta Caminer Turra nacque a Venezia il 29 luglio 1751, figlia maggiore di Domenico Caminer, storico e giornalista, e Alda Meldini. La madre era “una buona donnetta ma dedita interamente alla vita molle e fumosa della sua Venezia” e destinò la figlia ad apprendere il lavoro di modista. Un impiego decisamente non adatto alla mente curiosa e avida della giovane, che ben presto si appassionò alle lettere. Invece di applicarsi nei lavori d’ago, leggeva di nascosto romanzi francesi. “Lei era di animo romantico, voleva il ‘delirio’, voleva ombre a cui dare corpo, torri, spettri, delitti, rapimenti”, dice Michaela Liuccio nella biografia che le ha dedicato. Non si sa bene se la madre volle punirla, se perse le speranze o se fu proprio il padre a intercettare la fame di sapere della figlia, fatto sta che presto Elisabetta prese a frequentare lo studio di Domenico Caminer, proprio nel periodo in cui lui fondava L’Europa Letteraria. Era l’ambiente perfetto per la giovane, che prese a leggere, scrivere, tradurre dal francese e fin dalla prima pubblicazione, il 1 settembre 1768, divenne un’assidua e fidata collaboratrice della rivista. E pur perseguendo nella sua opera di poetessa e traduttrice letteraria e teatrale per tutta la vita, fu nel giornalismo che trovò la sua vera missione.
L’Europa Letteraria si inseriva nella tradizionale corrente del giornale letterario, proponendo recensioni e novelle, accompagnandole ad articoli di diverso argomento tratti per lo più da altri giornali. L’idea di Domenico era quella di selezionare il meglio degli altri giornali e delle gazzette letterarie, “per risparmiare spesa e fatica a’ letterati. Non manco però d’inserirvi tutti i libri nuovi de’ quali è possibile essere informato.”¹ Questa visione venne in realtà intaccata dalla giovane Elisabetta, che con il suo entusiasmo e facendo sfoggio di una spiccata intelligenza, iniziò presto a produrre contributi originali, intervenendo nelle più importanti questioni filosofiche, sociali e letterarie dell’epoca, trasformando gradualmente il giornale in un prodotto moderno e illuminato.
Anche quando andò in sposa ad Antonio Turra, medico e botanico vicentino, continuò con passione la sua attività giornalistica. Nel 1773 L’Europa Letteraria annunciò la fine delle sue pubblicazioni e la nascita di un nuovo foglio, Il Giornale Enciclopedico, che differiva dal precedente per una maggiore varietà di rubriche e di tematiche trattate e per la preponderanza di articoli originali di grande qualità. Formalmente, almeno all’inizio, la guida rimase affidata a Domenico Caminer, ma nel 1777 questi, ormai stanco, decise di ritirarsi e di lasciare la direzione del giornale interamente nelle mani della figlia. Elisabetta divenne così non solo la prima donna giornalista in Italia, ma anche la prima donna direttrice di un giornale, che animò con una dedizione incrollabile fino alla sua morte.
Il Giornale Enciclopedico diventa uno dei giornali italiani più vivi e coraggiosi, strumento di battaglia culturale e voce di dissenso, organo di propaganda delle idee illuministiche provenienti da Francia e Inghilterra. Il giornale tenta di mettere al servizio dei lettori le capacità ragionative dei redattori, proponendo un sapere illuministicamente scevro da pregiudizi. La critica che le colonne del periodico propongono è seria, attenta, sempre imparziale. ²
Elisabetta si circondò di collaboratori esperti e capaci che contribuivano alle pubblicazioni con articoli originali riguardanti non più solo recensioni letterarie e teatrali (che pure rimanevano), ma anche la storia, le scienze naturali, la medicina. Dai suoi carteggi emerge un’assidua corrispondenza che Elisabetta intratteneva con i suoi corrispondenti, segno di un’instancabile attività alla direzione del giornale, ed essa spicca per la sua immagine di redattrice consapevole, con una chiara visione del suo ruolo e del suo compito.
Quando Elisabetta si trasferì a Vicenza con il marito, il giornale, ormai saldamente nelle sue mani, prese a stamparsi qui, dove Antonio Turra aprì presto anche una tipografia per provvedere direttamente alla pubblicazione del giornale, che dal 1783 avrebbe mutato titolo in Nuovo Giornale Enciclopedico. E proprio a Vicenza Elisabetta riunì attorno a sé una cerchia di letterati e intellettuali di prim’ordine. Molte furono le personalità che Elisabetta incontrò e frequentò (risalta, fra gli altri, il nome di Goethe, che fece visita a lei e al marito nel corso di un suo soggiorno a Vicenza e ne rimase favorevolmente colpito). Nelle riunioni serali nel salotto dei Turra “si discutevano animatamente le idee filosofiche e politiche illuministiche, si leggevano senza preconcetti e con grande entusiasmo gli scritti degli ultramontani, da Locke a Condillac, da Voltaire a d’Alembert”.³ Queste conversazioni divennero inoltre ispirazione per diversi articoli firmati da Elisabetta stessa, arrivando così a circolare al di fuori della sua cerchia e a diffondere la cultura illuministica in territorio veneto e oltre.
Il suo era un giornalismo marcatamente illuminista non solo per le tematiche trattate, ma anche per il modo in cui venivano affrontate. Il carattere fondamentale da seguire nel lavoro di redazione era quello dell’obiettività: un giornalista non deve giudicare e influenzare in alcun modo il giudizio del lettore. Ciononostante, il redattore aveva anche il compito di educare il proprio pubblico e, in questo senso, la scelta degli articoli e degli argomenti da proporre doveva essere accurata e rigorosa. Da parte sua, Elisabetta si occupò molto di problematiche femminili e fu una grande sostenitrice dell’importanza dell’educazione intellettuale per le donne. Spesso nei suoi articoli presentava figure di donne che si erano distinte per il loro percorso di vita e di esse faceva emergere qualità come il coraggio e la rettitudine morale. Per le donne rivendicava un ruolo attivo nella vita politica e pubblica e criticava, ad esempio, il modo in cui in molte venivano costrette a percorrere la via monastica pur senza sentirne la vocazione. Era una donna a parlare, una donna che voleva di più per le sue simili e che sfruttava la sua posizione per portare la sua - la loro - causa all’attenzione di un pubblico ampio e variegato.
Alla direzione di un giornale del secondo Settecento
È tuttavia necessario riconoscere il carattere del tutto eccezionale dell’esperienza di Elisabetta Caminer, vissuta in anni in cui erano ancora poche le donne che potevano ritagliarsi spazi di azione così ampi nel panorama culturale italiano. A rendere possibile questa sua intensa attività intellettuale concorse il contesto (famigliare nello specifico e veneto in senso più generale) in cui nacque e crebbe. I Caminer non erano una famiglia dell’aristocrazia, bensì appartenevano al ceto medio artigiano e professionale, in cui accadeva, già all’epoca, che le donne contribuissero alla gestione delle imprese famigliari. L’attività di Elisabetta aveva di fatto due anime: la forte passione e predisposizione personale si combinavano a un elemento più pratico, professionale e in un certo senso “commerciale”, che faceva dell’attività dei Caminer una vera e propria impresa editoriale. Scrivere e fare informazione, per Elisabetta (e per il padre prima di lei), erano una missione, ma si trattava anche, in fin dei conti, di un vero e proprio lavoro. E spesso, nel corso della sua carriera, ella dovette fare i conti con difficoltà economiche: dirigere un giornale non era, di fatto, un’attività particolarmente remunerativa.
L’abilità imprenditoriale e l’impegno di Elisabetta emergono chiaramente dai suoi carteggi: per tutta la sua vita mantenne una fitta rete di corrispondenze con intellettuali e collaboratori, nonché con gli stessi abbonati, a cui inviava i nuovi numeri e richiedeva con prontezza e decisione i pagamenti dovuti. La sua era un’attività a tutto tondo che la teneva occupata quotidianamente: sorvegliava gli stampatori per evitare errori, si occupava della diffusione dei giornali, promuovendoli e distribuendoli e cercando di allargare il bacino geografico dei suoi lettori, raggiungendo nuove città e nuove regioni.
Leggendo le sue lettere fanno a volte sorridere i piccoli, grandi problemi con cui aveva a che fare: spesso si lamentava, ad esempio, della lentezza e dell’inaffidabilità dei servizi postali nel recapitare i nuovi numeri della rivista agli abbonati. In una lettera indirizzata a Clementino Vannetti di Rovereto, datata 16 gennaio 1779, afferma ad esempio “Ho consegnato il pacchetto pel Farsetti. Egli lo avrà ricevuto. […] Ma sarebbe andato perduto il pacchetto co’ tomi di Nove: io ne sarei mezzo disperata.”, mentre in un’altra lettera del gennaio successivo diceva “Quando ricevo una vostra lettera io m’arrabbio infinitamente sentendo il ritardo estremo di questi maledetti Cavallari nel farvi avere i pacchetti. A che giova diligenza? Eccovi quello di Dicembre: quando vi giungerà?”⁴ Insomma, viene da dire che poco è cambiato tra il Settecento e gli anni Duemila.
La sempre presente ombra della censura
A questi problemi di gestione si aggiungeva l’ombra sempre vigile della censura. A Vicenza, in quegli anni, la censura era ancora particolarmente rigida e severa e nulla poteva essere pubblicato senza un attento esame da parte degli organi preposti a rilasciare le licenze di stampa. Così, Elisabetta si lamentava in una lettera del 1 agosto 1778 che si vedeva “rimandar senza licenza tutto il giorno le cose più indifferenti”:
Le nostre stampe sono in queste mani, e basta che un Frate non abbia voglia d’andare in Coro, o un Prete altro non abbia che fare, o un ozioso voglia guadagnar qualche cosa, o accadano altre galanterie perché questa genia s’erigga in Giudice di chi suda su’ libri per compor qualche cosa di buono, e si vede quindi riggettato da un ignorante. Insomma finché la stampa non sarà libera l’Italia sarà meschina in fatto di Letteratura.
A Elisabetta, che in una successiva missiva imprecava contro i “maledetti revisori”, il sistema della censura e delle licenze andava chiaramente molto stretto. Il suo giornale fu a volte sottoposto a perquisizioni. Il 14 luglio 1792, ad esempio, raccontava in una lettera indirizzata a Lazzaro Spallanzani di essere inquieta perché due settimane prima il marito era stato avvisato che la stamperia doveva essere perquisita “per rilevare se avesse stampato con data di Zoopoli delle lettere del Prof. Spallanzani in maschera [pubblicate sotto pseudonimo e con un luogo di stampa immaginario, n.d.r.], nelle quali è parlato contro il Governo di Milano, ed eziandio contro persone particolari.” Un successivo avviso aveva comunicato ad Antonio Turra che “una persona di Vicenza avev’avuto commissione di spendere fino a 24 zecchini per sedurre un fu lavorante del Turra, onde facesse la spia sul proposito ed informasse.” Una domenica, raccontava, due abati (“uno grasso in parrucca, l’altro grande e con molti capelli, che si dicono Milanesi, ma se ne ignorano i nomi”) erano giunti a Vicenza e avevano chiesto della tipografia. Senza mai rivelare il loro nome, avevano preteso di esaminare lungamente diverse stampe di importanti collaboratori del giornale. Forse erano “genti innocenti”, affermava Elisabetta, ma lei e il marito ritenevano che fossero spie. “I tristi sono a temersi anche da’ buoni, quindi io mi sono creduta in dovere di avvisarla”, concludeva.
Una situazione non facile, insomma, che sebbene Elisabetta affrontasse con determinazione non mancava di darle pensieri. Eppure mai si stancò di perseguire nella sua opera di scrittura e trasmissione delle idee che difendeva. Solo verso la fine della sua - purtroppo breve - vita, iniziò a dubitare delle sue convinzioni e faticò a venire a patti con gli stravolgimenti dell’ultimo decennio del suo secolo. La Rivoluzione francese segnò un momento di svolta per l’intera Europa e anche Elisabetta e il suo giornale ne furono colpite. Credette fortemente negli ideali rivoluzionari, ma come afferma Michaela Liuccio, “dopo la Rivoluzione francese partecipò con passione ed amarezza alla delusione di tutte quelle donne che avevano esultato nel 1789 e si vedevano tradite nelle loro aspettative, escluse da quella uguaglianza così cara, in teoria, ai rivoluzionari.”⁵ A ciò si aggiungeva la consapevolezza che anche la millenaria storia della Repubblica di Venezia si avvicinava alle sue ultime ore. La verve e il coraggio dei suoi anni d’oro andarono progressivamente esaurendosi ed Elisabetta abbandonò il suo spirito combattivo in favore di una moderazione intrisa di riflessività. Nel 1790 il giornale cambiò titolo in Nuovo Giornale Enciclopedico d’Italia e prese a uscire in formato più piccolo. Tornò a essere stampato a Venezia, dove continuò a essere pubblicato fino al 1797, dopo la morte della sua direttrice e fino alla caduta della Serenissima. Nel giugno 1796 l’editore Storti diede il triste annuncio della morte di Elisabetta. Lo Storti assunse il compito di continuare le pubblicazioni, che tuttavia cessarono l’anno successivo. La scomparsa di Elisabetta, cuore e anima del suo giornale, segnò così di fatto la fine di una delle esperienze giornalistiche più interessanti del Settecento italiano.

Amata e odiata: la morte di Elisabetta
Per il suo lungo e prodigioso impegno Elisabetta fu amata, lodata e rispettata. Da molti fu presa a modello: Giuseppe Pelli Bencivenni, ideatore della Toelette, primo giornale per le donne comparso in Italia, assumendola a ideale di donna colta e istruita le dedicò due delle lettere che facevano da prefazione ai numeri del suo giornale. Un gesto che riuscì immensamente gradito a Elisabetta, che lo ringraziò in una lettera del 27 luglio 1771: “Non ho termini che bastino ad esprimervi la mia riconoscenza per la bella lettera che mi avete diretta nella Toelette; ad ogni modo però ve ne ringrazio quanto più posso, e desidero di meritarmi un giorno l’onore che mi fate.”
Allo stesso tempo fu anche molto criticata da quanti non perdonavano quella che veniva percepita come un’eccessiva indipendenza e autonomia e non approvavano la presenza di una donna in un ruolo con il suo. Su di lei girarono le voci più disparate. Le gentildonne vicentine erano invidiose di lei, che a lor dire rubava loro gli amanti. Di lei si diceva che fosse presuntuosa, che avesse abbandonato la fede, di aver vissuto una vita di sregolatezze e di aver persino preso come amanti dei religiosi. Molto spesso suscitò le ire degli ecclesiastici, che l’accusavano di pubblicare scritti contro Roma, contro i Papi e contro i santi, incappando più volte in problemi con l’Inquisizione.
Aveva solo 45 anni quando morì, il 7 giugno 1796. Alcuni dicono per l’abuso di alcol, ma molto più probabilmente la causa fu un cancro al seno che aveva preso a tormentarla l’anno prima. Nelle lettere del suo ultimo anno di vita lamentò spesso il fatto di essere ammalata, affermando di faticare perfino ad alzarsi dal letto. E pure allo stesso tempo continuava a tenere le redini del suo giornale: in una delle sue ultime lettere, datata probabilmente uno o due mesi prima della sua morte, implorava un ignoto destinatario di inviarle materiale da poter pubblicare, essendo “aggravata da più di due mesi da un serio male che m’impedisce un lavoro assiduo com’esso lo esige [il giornale, n.d.r.], io gli fo soffrir dei ritardi che lo pregiudicano sommamente.”
Il giorno della sua morte un frate del convento di Santa Croce spese per lei parole severe e probabilmente ingiuste, definendola una “donna senza religione” che “quantunque affettasse spirito filosofico e tutto addetto allo studio, era la più perduta dietro alle mode e alla vanità del mondo.”⁶ Una voce dell’epoca vuole che si sia ricreduta e confessata in letto di morte, sebbene a dirla tutta dalla Chiesa mai si fosse veramente allontanata. In realtà, è probabile che morì tra grandi sofferenze e patimenti, sfinita dalla malattia e dai debiti di un’attività a cui aveva dedicato tutta la vita e che pure non le aveva garantito una stabile sicurezza economica. Fu sepolta nella chiesa di Santo Stefano a Vicenza, senza nessuna lapide in memoria.
Non dev’essere stato semplice avere a che fare con Elisabetta Caminer Turra, ma probabilmente non dev’essere stato semplice nemmeno essere Elisabetta Caminer Turra. Per quanto mi riguarda, avendola incontrata nei miei studi numerose volte e avendo a lungo letto e riletto i suoi carteggi, non posso fare a meno che provare una forte ammirazione (e di conseguenza un forte affetto) per questa donna che osò sfidare le convenzioni sociali dell’epoca, trovando il coraggio di far sentire la propria voce in ambiti in cui non era necessariamente la benvenuta e reclamandovi uno proprio spazio legittimo.
Come sempre, grazie per avermi letto fino a qui. Spero che questo primo approfondimento sia stato interessante (qualsiasi feedback è ben accetto e molto gradito). Se avete domande o approfondimenti su questioni specifiche che vi piacerebbe leggere nelle prossime newsletter, scrivetemi in qualsiasi momento.
Vi auguro buone letture e vi aspetto nella prossime newsletter (e come al solito su tutti i social).
Approfondimento veramente molto interessante e scorrevole. Aspetto con curiosità i prossimi. Grazie!
È stata una lettura molto interessante, che descrive a pieno la donna forte e indipendente che Elisabetta era. Non vedo l'ora di continuare questa serie di articoli ❤️