Talee Letterarie | Pachinko e l'occupazione giapponese della Corea
Uno sguardo sulla Corea occupata e sui rapporti tra il popolo coreano e quello giapponese.
Ciao, che bello averti qui ♥
Come va? Spero che febbraio sia iniziato nel migliore dei modi (magari con tanti bei libri, gattini, fiorellini e tisanine).
Finalmente è arrivata l’ora di scrivere e inviare la mia prima vera newsletter, un progetto su cui fantastico da mesi e a cui solo ora sto trovando il coraggio di dare una forma concreta. L’idea è di racchiudere in questo spazio approfondimenti legati al contesto storico, sociale e culturale, oltre che letterario, delle letture più interessanti che affronto: in particolare, quelle legate ai gruppi di lettura che organizzo (#GDLcoreano e #GDLAsia) e che mi danno l’occasione di parlare di Paesi che non solo ho avuto modo di studiare, ma che mi affascinano profondamente.
Partiamo quindi da Pachinko. Le righe che seguono non hanno la pretesa di essere in alcun modo esaustive, anche perché avremo modo di tornare su questi argomenti con le letture future e aggiungere via via tasselli al quadro che compone la storia della penisola coreana. Si tratta quindi di un accompagnamento per chi ha deciso di accogliere l’idea e partecipare al GDL, o anche semplicemente per chi desidera scoprire qualcosa di più su Paesi e letterature così lontani da noi.
Ricordo che l’approfondimento è spoiler-free per quanto riguarda la trama del romanzo. Potete leggerlo anche se non avete ancora letto Pachinko.
La prima lettura condivisa del nostro gruppo di lettura dedicato alla narrativa coreana è stata, appunto, Pachinko, di Min Jin Lee. Devo dire che inizialmente, tra i quattro titoli che avevo proposto, non era quello su cui avrei scommesso per la vittoria, ma ora credo che il gruppo non avrebbe potuto scegliere libro migliore per iniziare quest’avventura. Pachinko si è rivelata la lettura perfetta perché unisce un’articolata e avvincente storia familiare alle vicende – non ben note qui da noi, ma estremamente drammatiche – dell’occupazione giapponese della Corea e delle discriminazioni subite dai coreani in patria e in Giappone. In realtà, è proprio leggendo Pachinko e commentandolo con il gruppo che l’idea di questa newsletter ha finalmente preso forma, come uno spazio in cui andare oltre la “semplice” lettura.
Pachinko. La trama in breve
Corea del Sud, Anni Trenta. Quando Sunja sale sul battello che la porta in Giappone, il suo Paese, la Corea, è colpito a morte dall'occupazione giapponese. Tradita dall'uomo che l'ha fatta innamorare e da cui aspetta un figlio, per non coprire di vergogna la locanda che dà da vivere a sua madre, Sunja lascia la sua casa, al seguito di un giovane pastore che si offre di sposarla. Ma anche il Giappone si rivelerà un tradimento: quello di un Paese dove non c'è posto per chi, come lei, viene dalla penisola occupata. Perché essere coreani nel Giappone del xx secolo è come giocare al gioco giapponese proibito, il pachinko: un azzardo, una battaglia contro forze più grandi che solo uno sfacciato, imprevedibile colpo di fortuna può ribaltare.
Min Jin Lee
Nata a Seoul ma emigrata con i genitori negli Stati Uniti all’età di 7 anni, Min Jin Lee ha studiato storia a Yale e legge alla Georgetown University. Ha scritto Pachinko durante un periodo vissuto a Tokyo e il romanzo ha visto la stampa nel 2017 diventando velocemente un bestseller del New York Times e venendo insignito di importanti premi letterari. Fortemente apprezzato anche in Corea, in Italia è arrivato nel 2018, uno dei primi romanzi ad avvicinare anche il nostro pubblico alla storia della Corea – o meglio, delle Coree – e dei suoi rapporti con il vicino Giappone.
La storia ci ha traditi, ma non importa
Incipit, Pachinko
Il titolo “Pachinko” richiama il nome di un gioco d’azzardo (immaginiamoci una sorta di slot machine) diffusosi in Giappone negli anni della guerra e il cui business era per la maggior parte nelle mani della minoranza coreana e spesso associato ai gruppi della criminalità organizzata, come la yakuza. Il romanzo racconta infatti la storia di quattro generazioni di coreani che, lasciata la Corea in seguito a tribolate vicissitudini, si stabiliscono a Osaka, dove dovranno cercare di sopravvivere in un Paese a loro ostile e che offre molte meno possibilità di riscatto di quante avessero sperato. Il gioco del pachinko è non solo una delle poche possibilità di cui dispongono per guadagnare, ma diviene anche un simbolo della loro condizione.
Gli spunti e gli eventi di interesse che ritroviamo nella trama sono numerosi, soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra il Giappone e il popolo coreano. Il romanzo inizia a Yeongdo, vicino a Busan, sulla costa meridionale della Corea del Sud. Il libro primo si intitola infatti “Goyang” 고향, che può essere tradotto come “paese natale”. Siamo negli anni che seguono l’annessione della Corea da parte giapponese e questa prima parte ci dona uno spaccato molto vivido di cosa voleva dire vivere nella penisola in quegli anni.
L’occupazione giapponese della Corea
A conclusione di un processo iniziato già negli anni precedenti (nel 1905 la Corea era diventata un protettorato del Giappone e nel 1907 l’imperatore coreano Gojong era stato poi costretto ad abdicare), il 1910 vide il Giappone annettere formalmente la penisola coreana, ponendo fine agli oltre 500 anni del regno della dinastia Joseon e dando avvio a un periodo di dominio coloniale destinato a durare fino alla fine del secondo conflitto mondiale, nel 1945. Il Giappone stabilì un governo militare, presieduto da un governatore nominato direttamente a Tokyo e con poteri quasi assoluti, che si tradusse in una dominazione particolarmente rigida e a tratti apertamente violenta nei confronti del popolo coreano.
Il Giappone instaurò così uno stato di polizia e il primo decennio fu particolarmente brutale, con la messa in atto di una generale repressione volta a inibire qualsiasi spirito di resistenza o tentativo di ribellione. Come in molte situazioni simili in altre aree del mondo, i coreani furono privati della libertà di stampa e di associazione, libri e opere coreane vennero bruciate o spedite a Tokyo, l’istruzione fu negli anni strumentalizzata e furono instaurati processi spesso sommari contro chiunque tentasse di contrastare la politica nipponica. Numerosi furono i coreani che fuggirono (in Cina, negli Stati Uniti) o scelsero la via della clandestinità per organizzare la resistenza al governo giapponese.
Il movimento del primo marzo 1919
Uno dei riferimenti ricorrenti in Pachinko è proprio agli eventi del primo marzo 1919: si racconta più volte infatti che Samoel, il fratello maggiore di Isak e Yoseb, (oltre che a numerosi studenti del seminario di Pyongyang) aveva partecipato proprio a questo movimento indipendentista. Ma cosa successe esattamente?
Nel gennaio 1919 morì re Gojong, tra le voci di un possibile avvelenamento. La morte dell’ultimo sovrano coreano esasperò le tensioni che si erano accumulate nel corso del decennio e i leader del movimento indipendentista decisero di passare all’azione: pochi giorni prima del funerale del re venne redatto un testo che conteneva una dichiarazione unilaterale di indipendenza e ne venne data pubblica lettura. La dichiarazione recitava:
We herewith proclaim the independence of Korea and the liberty of the Korean people. This we proclaim to all the nations of the world in witness of human equality. This we proclaim to our descendents so that they may enjoy in perpetuity their inherent right to nationhood.
Qui potete leggere la dichiarazione nella sua interezza.

La folla accorsa per l’evento gridò alla libertà del Paese e le manifestazioni dilagarono a macchia d’olio in tutta la penisola. La repressione, è facile immaginarlo, fu brutale: i cittadini coreani rimasti uccisi furono migliaia, i feriti, naturalmente, ancora di più e si stima che oltre 50.000 persone vennero imprigionate (molte morirono di stenti e torture in carcere). La resistenza continuò a lungo e i patrioti all’estero tentarono di instaurare un Governo provvisorio in esilio presieduto da Rhee Syngman (che sarebbe poi divenuto il primo presidente della Repubblica di Corea nel 1948), ma l’occupazione era destinata a durante ancora per decenni. Pur con qualche timida concessione, negli anni successivi il Giappone continuò a governare la penisola, sfruttando prepotentemente le sue risorse economiche, naturali e umane: una dominazione che sarebbe divenuta ancora più drammatica negli ultimi anni ’30, quando le necessità belliche (nel 1937 iniziò la guerra tra Cina e Giappone) sfociarono in una ancora più feroce mobilitazione delle risorse produttive coreane e in un rigido controllo sulla popolazione.
Naturalmente gli anni dell’occupazione portarono anche a una prima modernizzazione del Paese: la Corea fu investita da un processo di urbanizzazione e industrializzazione (che andò tuttavia per lo più a beneficio del Giappone), si diffusero infrastrutture prima in gran parte assenti, così come forme di intrattenimento popolare come la radio e il cinema. Il prezzo da pagare però fu alto.
Per ogni patriota che combatteva per una Corea libera, o per ogni disgraziato coreano traditore che combatteva in nome del Giappone, c’erano diecimila compatrioti lì e altrove che cercavano solo di sfamarsi. Alla fine, era lo stomaco il vero imperatore.
Pachinko
Una delle ferite più profonde che ancor oggi fatica a trovare una soluzione (e di cui avremo sicuramente modo di parlare nei prossimi mesi) riguarda le cosiddette “comfort women”, le migliaia di donne coreane (ma non solo) che durante gli anni della guerra vennero costrette (per mezzo di raggiri, promesse di onesti lavori lontano da casa o rapimenti) a prostituirsi per i soldati dell’esercito giapponese, ridotte in quella che può con ogni diritto considerarsi come una condizione di schiavitù sessuale.
Politiche linguistiche e soshi kaimei
Uno degli aspetti forse più eclatanti e visibili di questa dominazione e del tentativo nipponico di assimilazione culturale della Corea (si è parlato di un vero e proprio tentativo di culturicidio) fu l’imposizione della lingua giapponese come lingua ufficiale. Sebbene la grande maggioranza della gente comune continuò a utilizzare la lingua coreana, la nuova politica linguistica ebbe un effetto particolarmente importante sull’istruzione, dato che alle scuole fu imposto l’uso del giapponese nell’insegnamento, e sulla burocrazia. La città di Seoul, ad esempio, iniziò ad essere chiamata Keijo.
Pachinko offre un esempio di un’altra politica fondamentale e affine di questo periodo di occupazione: l’adozione per tutti i coreani di un nome giapponese.
A due mesi dal suo arrivo, Sunja si sorprendeva ancora di sentire pronunciare il nome di famiglia nella sua forma giapponese. A causa delle condizioni imposte dal governo coloniale, era normale per i coreani avere almeno due o tre nomi, ma a casa sua Sunja aveva usato ben poco lo tsumei giapponese – Junko Kaneda – scritto sui suoi documenti d’identità, perché non era mai andata a scuola e non si era mai trovata in circostanza ufficiali.
Pachinko
Sebbene all’inizio dell’occupazione giapponese Tokyo avesse dichiarato illegale per i coreani assumere un nome giapponese, con il passare dei decenni vi fu una netta inversione di rotta. Questa nuova politica, conosciuta come soshi kaimei, fu portata avanti con il fine di assimilare totalmente la popolazione coreana a quella giapponese. Pur esistendo un dibattito su quanto questa adozione fosse “obbligatoria” e quanto “fortemente consigliata”, tra il 1939 e il 1940 una serie di provvedimenti spinse una grande maggioranza dei coreani ad adottare effettivamente un nome e un cognome giapponesi, di cui erano tenuti a servirsi soprattutto in situazioni ufficiali e nei rapporti con le autorità e la burocrazia. Questa politica trovò una conclusione solo con la fine del secondo conflitto mondiale, quando fu di fatto abrogata.
Il dopoguerra
Nonostante il dominio coloniale giapponese durò per quasi 40 anni, i coreani non vi si sottomisero mai del tutto in modo passivo. Numerose furono le proteste negli anni dell’occupazione, così come i tentativi di riconquistare l’indipendenza nazionale.
La fine della Seconda guerra mondiale e della dominazione giapponese non si tradusse però per la penisola coreana in un periodo di tranquillità: basti pensare che di lì a cinque anni sarebbe scoppiata una nuova drammatica guerra e che la penisola si sarebbe trovata spaccata in due, con conseguenze incalcolabili per la popolazione. Da quel momento in poi, i destini delle due metà della penisola, che tanto aveva sperato di poter tornare libera, indipendente e sovrana, andarono divergendo. Nel Nord prese forma uno dei regimi totalitari più longevi e repressivi del mondo contemporaneo, mentre il Sud dovette fare i conti con una drammatica situazione sociale, economica e politica (fino alla fine degli anni ‘80 anche a Seoul si susseguirono regimi militari e dittatoriali). Nel 1953 la Corea del Sud risultava essere uno dei Paesi più poveri del mondo, con alti tassi di analfabetismo e un PIL pro capite di appena 67 dollari. La situazione era resa ancora più complessa dal fatto che la maggior parte delle industrie messe in piedi dai giapponesi durante l’occupazione si trovavano quasi tutte nei territori in mano a Pyongyang.
Anche per i coreani che negli anni si erano stabiliti in Giappone le cose non furono facili. Conosciuti come chosenjin (Chosen era il nome con cui i giapponesi chiamavano la Corea, derivante dal coreano Joseon, 조선), alla fine del conflitto erano oltre due milioni: molti di loro scelsero di tornare in patria, mentre chi rimase in Giappone (circa seicentomila persone) fu presto privato del passaporto nipponico. Alcuni divennero in effetti apolidi, non potendo (o non volendo) richiedere il passaporto nord o sudcoreano. Finita l’era del colonialismo, i coreani in Giappone iniziarono quindi a essere visti come stranieri a tutti gli effetti e le discriminazioni, lungi da cessare, finirono solamente per evolvere con il passare dei decenni.
Le difficoltà dei coreani in Giappone sono raccontate anche da Min Jin Lee in Pachinko:
La maggior parte dei coreani residenti in Giappone non poteva viaggiare. Chi voleva il passaporto giapponese, che permetteva di muoversi senza intoppi, doveva ottenere la cittadinanza giapponese, un’impresa quasi impossibile […]. In alternativa, chi voleva viaggiare poteva ottenere un passaporto sudcoreano attraverso la Mindan, ma erano pochi quelli che volevano affiliarsi alla Repubblica di Corea, governata da un dittatore. I nordcoreani non potevano andare da nessuna parte, invece, se non raggiungere la Corea del Nord.
Pachinko
I rapporti tra questi due popoli rimasero complicati e ingarbugliati per decenni. Oggi, complici anche la cultura pop e l’intrattenimento, le relazioni tra i due Paesi danno finalmente segni di normalità, ma i motivi di tensione restano: basti pensare ai lunghi decenni di lotte, ancora non risolte, per ottenere un’ammissione di responsabilità da parte di Tokyo per la drammatica vicenda delle “donne di conforto”.
Il cristianesimo in Corea
Un’ultima parentesi interessante che mi sembra doveroso fare riguarda la comunità cristiana in Corea, che ha un ruolo così importante in Pachinko. Nel romanzo infatti incontriamo diversi personaggi legati alla religione cristiana: Isak, per nominarne uno fra tutti, è un pastore protestante che ha studiato al seminario di Pyongyang, nell’odierna Corea del Nord, e la sua intera famiglia aderisce a questo credo.
I primi contatti si ebbero attraverso la Cina già nel periodo della dinastia Joseon e il cristianesimo si diffuse nella penisola coreana, come in molte aree circostanti, grazie all’opera di missionari che portarono in Asia idee, testi e credenze dall’Occidente. I primi tentativi di penetrazione cristiana in un Paese fortemente legato agli ideali confuciani non furono facili, passando dall’aperta persecuzione dei fedeli e dei predicatori (nel diciannovesimo secolo molti furono uccisi) alla tiepida accettazione nel Novecento.
Fu solo dopo la Seconda guerra mondiale che la religione cristiana, iniziò davvero a diffondersi tra la popolazione. Un aspetto particolarmente interessante, che ritroviamo citato anche in Pachinko, è la vicinanza che il popolo coreano sentiva, in seguito al dramma dell’occupazione giapponese, con le vicende dell’Antico Israele.
Se oggi nel Nord, date le peculiarità del suo regime e all’aperta ostilità del comunismo nei confronti delle religioni, la presenza cristiana è estremamente marginale (anche se pare che vi siano alcune migliaia di fedeli, con tutti i rischi che ciò comporta), in Corea del Sud il cristianesimo è una delle religioni più praticate. Pur essendo un Paese a maggioranza non credente, si stima infatti che quasi il 30% della popolazione sudcoreana aderisca alla fede cristiana, sorpassando la percentuale di buddhisti. La maggior parte segue i precetti protestanti, ma molti sono anche i cattolici e, in entrambi i casi, il fervore religioso in Corea è particolarmente vivace.
Quindi, cosa ne penso di Pachinko?
Di Pachinko, come dimostrano queste righe, ho apprezzato moltissimo il contesto storico e culturale, oltre che lo sguardo che offre su numerosi aspetti del complicato rapporto tra Corea e Giappone.
Da un punto di vista prettamente letterario, è un libro che consiglio e che sono davvero felice sia piaciuto così tanto ai membri del GDL. Ho anche qualche riserva: ci sono diverse cose nell’esecuzione e nella narrazione che non ho apprezzato del tutto. Se nella prima parte e per buona della seconda (il libro, per chi non lo avesse sotto mano, è diviso in tre macroparti) mi sono gustata a pieno la storia, affezionandomi ai personaggi principali (e in particolare a Sunja, a sua madre e a Kyunghee, la cognata), con il passaggio alla generazione successiva la trama ai miei occhi ha iniziato a sfilacciarsi. I salti temporali, che all’inizio erano fluidi, sono diventati man mano sempre più esagerati ed eccessivi, tanto che le ultime 150 pagine mi hanno dato quasi l’impressione di una raccolta di racconti in cui di capitolo in capitolo si saltava da un personaggio all’altro e da un episodio all’altro (alcuni peraltro a mio parere abbastanza inutili) in maniera troppo sbrigativa.
Rimane comunque un libro che consiglio molto e, complice uno stile di narrazione forse più “occidentale” che in altri casi, trovo sia molto adatto anche per chi non si è mai approcciato alla letteratura orientale o coreana nello specifico.
Letture consigliate e nuove uscite
La guardia, il poeta e l’investigatore di Lee Jung Myung, romanzo edito Sellerio
Storia della Corea. Dalle origini ai giorni nostri di Maurizio Riotti, saggio storico edito Bompiani
Il Giappone moderno. Storia politica e sociale di Elise K. Tipton, saggio storico edito Einaudi
Da gambero a balena. Corea del Sud, dalla guerra dimenticata al K-pop di Ramon Pacheco Pardo, saggio edito ADD editore
Cosa vedere
Drama e film a tema consigliati dal #GDLcoreano e della mia amica Stefania ♥
Pachinko – La moglie coreana (2022)
Mr. Sunshine (2018)
Chicago Typewriter (2017)
La creatura di Gyeongseong (2023)
The hymn of death (2018)
Assassination (2015)
Vi ricordo che la nostra prossima lettura condivisa con il #GDLcoreano sarà A proposito di mia figlia di Kim Hye Jin, che ci darà modo di discutere di diverse questioni che interessano la Corea dei giorni nostri, tra cui i conflitti generazionali, la condizione della comunità omosessuale e quella degli anziani. Lo leggeremo dal 12 al 25 febbraio, potete partecipare qui.
In parallelo invece con il #GDLAsia stiamo leggendo Sorgo Rosso del premio Nobel Mo Yan. La lettura terminerà sabato 2 marzo, perciò siete ancora in tempo per unirvi qui.
Se avete domande o approfondimenti su questioni specifiche che vi piacerebbe leggere nelle prossime newsletter, scrivetemi in qualsiasi momento.
E con questo vi auguro buone letture, ci vediamo nella prossime newsletter (e come al solito su tutti i social) ♥
Alessia
Tutti i libri che commenti finiscono in un modo o nell’altro nella mia wishlist. Hai il dono di far interessare le persone a quello che dici, scrivi e… leggi!
Grazie per questo approfondimento! È utilissimo ed esaustivo ❤️